Se c’è un settore in cui trasformazione digitale e ripartenza vanno di pari passo, questo di sicuro è quello dell’editoria. Ne parliamo allora con Alessio Crisantemi, uno degli speaker dei Digital Innovation Days 2020 e socio-fondatore del gruppo editoriale Gn Media, direttore del network Gioco News e del magazine eSportsMag.it. Nonché membro del consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Editoria Specializzata.
Intervista ad Alessio Crisantemi (Gn Media)
di Marco Lombardo
Il cambiamento del settore editoria è cominciato ben prima del Covid.
“Certamente. E proprio l’ANES può esserne un esempio: si parla di riviste ma è un termine che non è più esaustivo. Quella che era un’associazione di editori, appunto, di riviste specializzate, oggi rappresenta nuove forme come le pubblicazioni digitali”.
Tendenza sempre più in crescita.
“Ne parlavano anche durante l’ultimo direttivo: la fase di transizione è diventata un cambiamento strutturale. E non è finita qui. Se questo periodo di emergenza non vedrà ancora una conclusione, sono convinto che in seguito alla pandemia avrà un’ulteriore accelerazione”.
Non si tratta di un viaggio facile: quello dell’editoria è un settore per certi versi ancora molto tradizionale.
“Io credo e spero che ci si adegui presto al cambiamento di mentalità che sta avvenendo nel business e nel modo di fare business. C’è una spinta sempre più digitale che deve essere accompagnata da misure e incentivi. Penso per esempio Recovery Fund: da lì deve arrivare un contributo importante”.
Qual è il modello da seguire?
“La sfida non è banale, proprio perché il problema vero è che il modello di riferimento non esiste. Se non nei big americani del settore, che però agiscono a un livello molto più alto”.
Non è, diciamolo, un modello che si adatta alla nostra realtà. Almeno per ora.
“Questo è il problema: quello dell’editoria è mondo complesso, dove si intrecciano diverse problematiche. In particolare non conta solo l’appeal del prodotto o la soluzione tecnologica, ma è determinante il modello di business. E se è vero che in qualunque settore economico va risolto il problema della rete, produrre soldi non è mai certo. E-commerce a parte”.
Parliamo dell’editoria allora. Che fare?
“L’editoria oggi soffre la concorrenza presunta di social e piattaforme, che però non fanno informazione. Il pubblico è nello stesso tempo sempre più distratto e sempre più esigente”.
Soluzioni?
“Torniamo all’esempio americano. Il Financial Times grazie a ricerca e sviluppo ha introdotto soluzioni che hanno portato a un milione di abbonati digitali: ora dicono di poter vivere senza pubblicità. Bello, però dietro ci sono investimenti milionari. E 17 anni di lavoro…”.
Non tutti se lo possono permettere.
“Appunto. Il mercato italiano è ovviamente più piccolo. Faccio un altro esempio: su quello che è successo a Beirut il New York Times ha realizzato un’inchiesta che ha mischiato web, cartaceo, video e musica. Immaginate l’impiego di mezzi, uomini e risorse. E di tempo: siamo pronti qui da noi ad andare oltre l’attualità?”.
Fermo restando che in Italia di editori puri che possono puntare a un modello del genere che ne sono pochini.
“Esatto. Case history però ci danno soluzioni sull’utilizzo di una tecnologia più raffinata, che può supportare in questa transizione del modello editoriale. Serve però un cambiamento di mentalità, e questo l’ho detto anche nella nostra casa editrice”.
Quale?
“C’è un parziale timore al cambiamento nel ritmo quotidiano di lavoro, a volte si pensa che questa digitalizzazione sia troppa. Bisogna invece affacciarsi all’offerta di sistemi come l’intelligenza artificiale per integrarli. E questo comporta però studio e tempo”.
Serve cambiare i parametri, insomma.
“Servono investimenti su ricerca e competenze. Studiare il comportamento dei propri lettori per capire cosa vogliono, mantenendo comunque qualità e credibilità. Quelli del FT, per tornare a loro, hanno fatto educazione in scuole e università, approntato corsi di formazione per educare alla lettura e hanno creato fedelissimi. L’approccio deve essere multicanale”.
Guardare al futuro.
“E valorizzare il passato. Per esempio digitalizzare l’archivio, come hanno fatto loro. Questa è la cosa di maggior valore di un editore, e ora tutti i precedenti decenni di cartaceo sono a disposizione. Ecco: serve questo tipo di cambio di mentalità e di approccio”.
Da dove partire dunque?
“Innanzitutto, come detto, il lettore adesso è più esigente, anche chi era più refrattario alla tecnologia ha fatto cadere le barriere. Quindi si deve cominciare a immaginare chi sarà il tuo pubblico, cominciare a lavorarci. C’è chi vive solo all’interno del suo cellulare e lì va raggiunto”.
C’è una generazione di nuovi lettori.
“Io parlerei di un termine diverso: più che lettori, parlerei di utenti. Non è più dominante l’informazione scritta: ormai la si accompagna con podcast o con video. Ogni utente deve trovare il suo mezzo per informarsi”.
Il gaming, visto che ve ne occupate, può essere un mezzo di trasmissione?
“Assolutamente: lo è già. Prendiamo gli Esports: sono molto di più quello che si potrebbe immaginare. Non sono soltanto videogame, ma un fenomeno culturale, sociale, tech e di business. Un mezzo di comunicazione dalle potenzialità straordinarie”.
Come vengono utilizzati?
“In Usa e Asia sono già molto avanti su questo. Ci sono cantanti che lanciano i nuovi dischi dentro i videogame, con biglietti e concerti venduti e fruibili attraverso il gioco con transazioni reali. Oppure un altro esempio è la Nike che lancia una nuova scarpa con una pubblicità dentro una partita tra squadre digitali. Ricordate Second Life? Il sogno era quello: ha un avatar che vive in una città virtuali dove compra in un negozio per te. Solo che ai tempi mancava la parte di connessione della rete e il progetto è fallito”.
Adesso questo è possibile.
“Ora il contesto è un altro e i numeri degli Esport hanno dato accelerazione. Ci sono aspetti comunicativi che ancora molti non capiscono, la straordinarietà di un mezzo che arriva a tutti. I videogame sono diventati soprattutto questo”.
Ma questo è anche un mondo per giovani.
“Non solo. Certo: loro giornali, tv o banner sui siti non li guardano. erò alcune aziende hanno capito che quello del gaming non è un settore ristretto: negli Esports molti brand legati alle discipline creano team e eventi, oppure sponsorizzano giocatore. Eppure trovi anche marchi come Burger King o Mercedes, distanti dal business del videogame”.
Ok, ma per le generazioni più avanti?
“Le soluzioni ci sono. Le ricerche sulle aziende del lusso dicono che chi è più avanti con l’età è un target migliore rispetto, per dire, ai Millenials. Che sono nati in una crisi, cresciuti in un’altra crisi e ora dentro in una crisi peggiore. La penetrazione tecnologica ora è diffusa, e anche chi non è nato tech ha strumenti con Alexa in casa. Il mezzo per arrivare c’è”.
In definitiva: la carta si deve rassegnare?
“Non sarà più come prima, ma non del tutto. Di buono c’è che l’editoria ha le sue abitudini e tradizioni che sono ancora dure a morire. Anche in questo caso, l’impatto della tecnologia porta nuove esperienze, come la lettura di un giornale sul tablet. Magari un giorno non si stamperà più, ma il modo per mantenere vivo come fare un giornale c’è. Si tratta di cominciare a lavorarci sul serio”.
giornalista appassionato di tutto quanto fa tecnologia, caporedattore del quotidiano Il Giornale