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L’universo in cui l’uomo batte ancora i robot

La notizia è questa: Apple ha investito milioni di dollari nel 2012 perché si arrivare ad assemblare gli iPhone solo per mezzo di robot. Otto anni dopo ci ha rinunciato perché (ancora non è possibile). Insomma esiste un universo dove l’uomo ancora batte la macchina. L’ho raccontato martedì 23 sul Giornale.

Foxconn

La fantascienza e il futuro di un nuovo universo

di Marco Lombardo

Siamo indietro di circa seimila anni, ma forse non ci arriveremo. Era l’8000 d.C. quando il robot positronico di Isaac Asimov (1920-92) fece la sua comparsa come essere senziente, eppure – molti anni dopo, adesso – forse non sarà più così. L’universo letterario e quello reale sono arrivati all’incrocio dei loro racconti impossibili. E dopo aver viaggiato in parallelo, cominciano a divergere.

Sembra la storia di quel protone di luce che parte dall’esplosione di un buco nero: in realtà ne esistono due, gemelli allo specchio, che percorrono la loro esistenza prendendo due strade esattamente opposte alla stessa velocità. Fanno lo stesso percorso nello stesso tempo, seppur non nello stesso spazio. Fino a quando succede qualcosa che devia uno dei due. Non dovrebbe, ma a volte accade: è la distorsione del racconto. Un nuovo universo.

È successo, ora, nel nostro. Otto anni fa Apple diede vita a un progetto da milioni di dollari per sostituire l’uomo con le macchine. Due milioni di robot al posto di operai perché l’iPhone venisse prodotto in serie e senza intoppi. Adesso, otto anni dopo, di robot ne funzionano solo centomila, come aiutanti. E l’ingegno umano viaggia ancora a un livello superiore.

La soluzione del problema esiste, e Apple l’ha certificata rinunciando al suo programma: l’intelligenza artificiale non può sostituire la complessità dell’Uomo. E quasi sicuramente non ci riuscirà. Non adesso, non tra poco, non nel prossimo futuro. Il racconto comincia ad avere un finale diverso. Dopo tanto tempo.

Dicevamo di Asimov, il padre di tutti noi fantasticatori. Quando ancora i computer erano macchine primitive e occupavano interi stabilimenti per fare ciò che oggi si fa meglio con un orologio, lui già raccontava il futuro come se l’avesse già vissuto. Tracciava una linea temporale inevitabile, che poi chi ha seguito il suo esempio ha percorso anticipando il mondo che è arrivato.

Erano i tempi del Multivac che portava segnali e conoscenza sul tutto il pianeta, il sogno già allora non tanto immaginario di internet. Solo 50 anni prima. E poi, più avanti, dell’onirica psichedelica di Philip K. Dick (1928-82) che rappresenta la realizzazione di molti dei programmi che viaggiano nei circuiti della nostra vita. E forse pochi sanno per esempio, che è stato un ingegnere della Xerox a immaginarsi nel 1974 i menu pop-up che popolano i nostri desktop: si chiamava Dan Ingalls, stava sul tetto del suo ufficio. Li vedeva, era sotto Lds.

Insomma: finzione e realtà si sono rincorsi a giusta distanza, ma la prima ha sempre anticipato la seconda senza trovare ostacoli o bivi inaspettati. Computer sempre più personal e sempre più piccoli, comunicatori da tasca diventati smartphone, automazione sempre più sfrenata, controllo dell’umanità attraverso la tecnologia. Non c’è previsione che non abbia avuto conferma.

E poi Google, il nostro Dio quotidiano: nel 1968 l’idea cominciò ad esistere in un’edizione cartacea, The Whole Earth Catalog, che raccoglieva tutto il design del pianeta. La Bibbia di tutti i nerd, che chiuse otto anni dopo con la settima edizione. Le ultime parole dell’ultima pagina erano «Stay hungry, stay foolish». E le avete sentite una trentina d’anni più tardi, da qualcuno che ha cambiato il mondo.

Dunque: dopo tutto questo, il passo successivo erano i robot più uomini di noi. Era scritto, la scienza dopo la fantascienza non ha mai avuto dubbi che un cervello artificiale potesse superare in breve quello umano. Sostituirlo, come voleva Apple. O come diceva una ricerca tedesca, che nel 2016 aveva predetto l’intera eliminazione di noi essere limitati nel settore della logistica.

Sarebbe dovuto succedere quest’anno, e invece siamo ancora qui a spostare pacchi. Ray Kurzweil, l’ingegnere di Google inventore della Teoria della Singolarità, è sicuro che i suoi calcoli non sbaglino, la macchina supererà l’uomo nel 2051, l’anno in cui l’Uomo diventerà macchina. Eppure ancora oggi, quell’essere pieno di algoritmi non è capace del tutto di assemblare un telefono. Ha bisogno di noi.

E allora, mentre stiamo entrando in un destino che forse non è quello che abbiamo letto, pensiamoci bene: qual è il senso di un robot? L’idea sarebbe quella di migliorare la nostra vita, ci stiamo provando in tanti modi, anche a rischio del nostro lavoro. Il risultato per ora è quello dare ambizione a sentimenti molto umani, come avidità o pigrizia. La macchina è entrata nel nostro Io, ma non ci siamo preparati abbastanza nonostante bastasse sfogliare le pagine di qualche racconto. Mentre scopriamo che forse non è tutto vero l’inevitabile che abbiamo costruito, che il mondo dei robot ha ancora bisogno di noi.

Esiste un nuovo universo dove il libero arbitrio, l’imprevedibilità dei sensi, probabilmente l’amore, non sono riassumibili in un calcolo matematico. Anche quello che noi non saremmo mai capaci di fare. Siamo bravi in altro, in questo nostro universo, che poi in fondo è proprio quello in cui si è già arrivati all’Anno Ottomila. Lì i robot, alla fine, scomparvero e ne restò solo uno. Per proteggerci da noi stessi.

giornalista appassionato di tutto quanto fa tecnologia, caporedattore del quotidiano Il Giornale

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